Lost in Translation è un film, scritto e diretto da Sofia Coppola, che non può esser considerato,
esclusivamente, una storia d’amore essendo più la metafora della condizione di incomprensione e
solitudine che pervade l’uomo.
È un racconto in cui trionfa il non detto sul consumato, in cui una relazione platonica è più
logorante del desiderio, in cui il romanticismo è puro e, non si banalizza.
Una pellicola essenziale, priva di particolari salti mortali o evidenze tecniche, ma abile
nell’amalgamare le dimensioni parallele del quotidiano e dello straordinario.
Un’opera dal sapore agrodolce, di tante immagini e poche parole, in grado, però, di aggiudicarsi la
statuetta dorata per la migliore sceneggiatura originale.
Il cinema ha la capacità di fermare la vita di due insoliti personaggi: Bob Harris e Charlotte,
(interpretati, rispettivamente, da Bill Murray e Scarlett Johansson) e di renderla unica.
Lui, è attore in declino, costretto a stare a Tokyo per girare alcuni spot televisivi; lei una giovane
neo laureata piena di speranze, che si trova in Giappone per seguire il marito fotografo.
Bob, il nostro protagonista maschile, sposato da venticinque anni, è in piena crisi di mezza età; si
presenta al pubblico come un personaggio dotato di particolare complessità, l’emblema di una
profonda, quanto dolorosa, contraddizione interna.
Egli è portato a riflettere sulla sua vita e si scopre un uomo in trappola, imprigionato in
un’esistenza che ha perso di passione.
Lei, Charlotte, è una ragazza dolce, innamorata ma, trascurata dal suo compagno di vita, i cui
progetti sembrano terribilmente frenati dalla paura di non essere al posto giusto, dal terrore di un
futuro incerto che la attanagliano e la vorrebbero spingere ad accontentarsi della mediocrità.
La loro è una storia di solitudine, di lontananze da colmare, di insicurezze e di scarse prospettive.
Una vicenda di sentimenti spenti, opacizzati dal disarmante fluire del tempo, all’interno di un
grigio ordinario.
È il racconto di un legame tra esistenze profondamente diverse, avvicinate dall’imprevisto e da una
città, che racchiude un mondo profondamente lontano da casa.
Bob e Charlotte istaurano un rapporto nuovo e anticonvenzionale.
Entrambi alla ricerca di una via di fuga. Ad un lui in declino, che ha perso ogni speranza , si
contrappone una lei, la giovanissima Scarlett Johansson con una vita che deve ancora cominciare
Entrambi sono gli attori di una esistenza che non li soddisfa, guidati dalla ricerca di un barlume di
luce dopo i troppi anni trascorsi nell’ombra di una vita vuota e senza significato.
Il loro incontro diviene la base di una pellicola che non vuole raccontare, ma osservare.
Sofia Coppola analizza in modo magistrale il malessere provocato dalla sensazione di non venire
ascoltati e compresi totalmente.
Una condizione che isola l’individuo che si trova a sopportare le proprie sofferenze ed i propri
problemi senza poterli condividere, per sentirli più leggeri.
Un film che prova a farsi semplice testimone della straordinaria ordinarietà di due persone così
distanti ma, allo stesso tempo, così vicine nella loro solitudine.
Il dolce congedo conclusivo tra i due assume le sembianze di uno sguardo nuovo, colmo di
rinnovate speranze; un raggio di sole per illuminare un futuro diverso.
Lost in Translation se, da un lato, è il ritratto dell’insoddisfazione che viviamo, della nostra
incapacità di comprenderne i motivi e di afferrarla, dall’altro ci mostra la soluzione a questo
dramma: la forza nasce dal vivere un rapporto umano puro, di qualunque natura esso sia.
E quindi, nella confusione di una megalopoli, tra milioni di persone che camminano senza
nemmeno guardarsi in faccia, ci si può ancora incontrare e ritrovarsi, come delle calamite attratte da
una forza magnetica sconosciuta.
Il film ci suggerisce che questa opportunità può costituire l’unica nostra possibilità di salvezza.
Giulia Petillo