Ieri sera prima assoluta per il monologo “Mi chiamo N.”, scritto da Massimo Piccolo e portato in scena da Noemi Gherrero.
Cosa hanno in comune un’anonima ragazza napoletana e l’inimitabile cantante jazz Nina Simone? Per il senso comune ben poco. Eppure anche la giovane N. è nata e vissuta in una periferia socialmente remota dal fervore cittadino, ha, in certo senso, conosciuto forme di razzismo – come quando in chat la additavano come «terrona» –, ha allacciato una storia d’amore fallimentare, ha annegato dispiaceri e delusioni nell’alcool, e, soprattutto, coltiva un talento artistico. La ragazza vede dunque più di un sottile trait d’union tra la sua esistenza e quella della Simone, benché Cate, il suo alter-ego censurante, voglia stroncare sul nascere ogni possibile comparazione, sminuendo e mortificando quell’afflato di creatività che N. nutre, ma che si vede costretta a soffocare. Il suo alter-ego altro non è che il riflesso di una società giudicante, i cui componenti hanno tanti volti, come quello della madre, che ha trovato un rifugio dalla solitudine nelle bigotte preghiere liturgiche, e che la vorrebbe in ginocchio a chiedere perdono per i suoi peccati, ignorando che lei, in ginocchio, nel tentativo di dare piacere al figlio del portiere, c’è stata per davvero; o come il suo ex-fidanzato, che la rimproverava di non «averne mai abbastanza» delle sue dimostrazioni di affetto, incessantemente reclamate. A lei, figlia di madre Solitudine e di padre Dolore, schiacciata da un senso di frustrazione e dall’incomprensione di chi la circonda, rimangono, come unico sfogo, lacrime amare, ma «più vere di baci» e di carezze, di cui pure avverte un insaziabile bisogno. Una via d’uscita da questo impasse per fortuna c’è, se l’input parte proprio dal suo idolo Nina Simone. L’ascolto di un brano della cantante innesca nel subconscio di N., che sta per palesarsi finalmente in Noemi, un processo catartico in grado di sprigionare l’ebrezza di una libertà mai sperimentata fino in fondo, tenuta repressa negli abissi del pregiudizio altrui o auto-imposto, e in grado di condurla verso una nuova consapevole aspirazione: la bramosia di esprimere tutta se stessa senza condizionamento alcuno, anche se lo scotto da pagare è l’esibizione del proprio corpo, ciò che continuerà a provocare l’impietoso verdetto di una società benpensante. Uno scotto che, tuttavia, produce una macchia indelebile, e che – come sottolinea la voce fuori campo del regista nel finale – è una ineluttabile condicio sine qua non. Nondimeno tutto questo, nella nostra interpretazione, passa in secondo piano: Noemi ha compreso che la società è anche altro – lei lo rivendica con forza – perché essa non può essere costituita unicamente da individui che la pensano allo stesso modo, per quanto siano la maggioranza e per quanto ci si debba scontrare inevitabilmente contro. Mi chiamo N. è il monologo (o per meglio dire il soliloquio) di N. / Noemi, scritto e diretto da Massimo Piccolo, interpretato, nell’arco di poco meno di un’ora, da Noemi Gherrero, che ha debuttato ieri sera, 25 febbraio, al Bolivar di Napoli, teatro diretto da Nu’Tracks. Indubbio merito dell’autore-regista dello spettacolo, prodotto da Moon Over, è quello di esser riuscito, da uomo, a farsi, in modo intelligente, sensibile portavoce di un’istanza di riscatto e di un sussulto emancipatorio al femminile, finanche in modo più lucido ed efficace di talune attiviste dei nostri giorni. La bella e delicata interpretazione della Gherrero è stata accompagnata e, in più, valorizzata dalle suggestioni musicali originali, in stile Simone, composte da Eunice Petito (che non peraltro proprio della Simone porta lo stesso nome di battesimo), nonché da immagini che scorrono sullo schermo, posto al centro del palco, di primi piani dell’attrice in scena, e da scatti di repertorio della cantante.
Massimiliano Longobardo