La disabilità non disabilita la creatività
C’è da chiedersi se l’universo non stia inviando un messaggio attraverso la vita di Gianluca Di Matola.
La disabilità si colloca al centro di questa storia, sì perché Gianluca è sulla sedia a rotelle e questo non è, decisamente, stato un freno per lui, ma del resto non avere a che fare con la disabilità non da la certezza di realizzare i propri sogni.
Molte persone non riescono a ottenere tutto quello che Gianluca ha conquistato, ma procediamo con ordine.
Gianluca ha 44 anni, è laureato in Beni Culturali e Scienze della Comunicazione e sono due lauree. È uno scrittore che ha pubblicato tre romanzi e vinto parecchi premi, in particolare nel 2021, a settembre, vince il premio al concorso letterario per racconti noir, Spoleto Calling, con la storia “A Castel Volturno non è mai stagione” e il presidente della giuria è Massimo Carlotto.
Gianluca è sposato con Ilaria, archeologa e funzionario responsabile del Museo Archeologico di Bacoli e del Museo Archeologico di Pontecagnano.
In breve, per dirla tutta, la disabilità non disabilita la creatività, l’intelligenza, la forza, i talenti e l’amore.
Questa è sicuramente la prova concreta che Gianluca porta con sé.
È vero, Gianluca? I tuoi talenti hanno un rapporto creativo con la disabilità, potremmo dire così?
Sì, ma anche no, nel senso che io non collegherei tutto il percorso di un individuo alla sua condizione fisica, senz’altro, in qualche modo, indirizza verso un cammino, che io definirei più una strategia per reinventarsi, faccio un esempio un po’ brutto per i tempi che viviamo, in guerra, quando si affronta un nemico, che molto spesso è più forte, si devono mettere in campo degli stratagemmi che permettano di fronteggiarlo, nella maniera più dignitosa possibile e nel caso anche di vincere. Questa, diciamo, è la mia visione della disabilità, vale a dire che io ad un certo punto della mia vita ho compreso di avere dei limiti, enormi, però averli non mi ha frenato, anzi mi ha spinto, mi ha invogliato a trovare delle strade che mi consentissero di esprimermi, attraverso gli strumenti fisici di cui dispongo, indubbiamente ho dovuto abbandonare il sogno di fare il calciatore o il carabiniere, ma ciò non mi ha vietato di coltivare altri interessi che ho scoperto grazie a questo mio impedimento.
Non mi piace legare la mia creatività o quello che sto costruendo, tramite il mio percorso professionale, al fatto che io sia una persona con disabilità, probabilmente questo estro ce l’avevo in maniera innata e poi la vita, la sensibilità o il fatto di dover passare più tempo con me stesso, riflettendo su quali fossero le mie possibilità, mi ha permesso di individuare questa mia vena creativa, ma non è detto che tutte le persone con disabilità debbano necessariamente essere delle belle persone o delle persone creative, e credo valga per chiunque, io terrei molto a non catalogare qualsiasi tipo di individuo per la sua condizione fisica, mentale, sessuale.
Noi siamo il risultato di ciò che vogliamo essere, fondamentalmente.
Immagina se a una persona calva gli si dicesse: tu sei bravo poiché sei calvo.
È lo stereotipo che spesso noi persone con disabilità subiamo e cioè al primo accenno di una capacità che possa essere professionale o caratteriale è perché siamo speciali, la disabilità ci da quest’aura, diciamo, celestiale, ma non è assolutamente così, è che purtroppo abbiamo poco, questo sì, è un fatto molto tragico e che andrebbe sottolineato, ci ritroviamo con meno occasioni degli altri per esprimerci e quindi il predestinato tra di noi che riesce ad eccellere, dato che è stato testardo, caparbio, ha lottato con le unghie e con i denti facendosi notare, si presuppone sia speciale, che abbia un dono, ma non è così, ha avuto soltanto più forza interiore di non lasciarsi schiacciare dalle differenze che la società porta con sé. Ci sono milioni di persone con disabilità capaci che o per loro mancanza o perché gli strumenti familiari e della comunità non glielo consentono rimangono relegati nella loro realtà. Non è una questione di identità di genere o di condizione, ma di opportunità, i normodotati sono tantissimi eppure ne conosciamo una manciata di illuminati e per loro tutte le porte sono aperte. Noi già siamo pochi, ci mettono pure, metaforicamente, il bastone tra le ruote, diventa ancora più raro vederci partecipi nel contesto quotidiano, io credo che basterebbe chiedere a chiunque: “Quante persone lei conosce con disabilità nella sua cerchia di conoscenze che sono realizzate personalmente e umanamente?” Sicuramente poche, dal momento che non usufruiamo delle stesse occasioni, questa è la tristezza.
Due lauree sono un grande impegno?
Sì, anche questo poi rientra nelle difficoltà con cui si scontra la persona che ha una disabilità. Il mio primo percorso di laurea è stato un po’ obbligato, tra virgolette, giacché mi fu consigliato in base alla mia condizione fisica come una prospettiva futura di lavoro più facilmente raggiungibile, ecco in certi casi la persona con disabilità può trovarsi a far deragliare la propria vita, io l’ho fatto e tutto sommato alla fine mi è piaciuto. Il secondo percorso di laurea invece l’ho intrapreso in età un po’ più matura e l’ho scelto io. Avevo questo sogno, mi piace molto la comunicazione e tutto ciò che riguarda i mass media e il mondo dello spettacolo.
Un sabato sera ero a cena con un amico, bevendo una birra, e mi disse: “Devo prendermi una laurea in Scienze della Comunicazione per il mio lavoro” e io: “ È sempre stato il mio sogno, ma non l’ho potuto fare e mi dispiace” e lui: “Perché non la facciamo insieme? Così sarà tutto più facile”. Sono stati i cinque anni più belli della mia vita, da studente.
La scrittura ha bussato all’improvviso o era un tuo desiderio?
Non ha bussato proprio all’improvviso, da ragazzo mi cimentavo nella scrittura e più che altro in articoli di giornale. Ho sempre lavorato nell’orbita dell’editoria giornalistica. In seguito, attraverso la lettura, ho scoperto degli autori tra cui Massimo Carlotto che mi hanno reso “Un animale da lettura”; alla fine sta tutto nell’individuare le proprie passioni.
Devo ammettere che da adolescente odiavo leggere e mi sono reso conto di quanto dipendesse dal fatto che i libri mi venissero regalati. Quando si regala un libro si commette l’errore più grande che si possa commettere, ossia si sceglie il libro da regalare in base ai propri gusti letterari e non tenendo conto delle preferenze di chi lo riceve, quindi mi ritrovavo questi “Mattoni”. Mi venivano regalate cose assurde per la mia età, avevo quindici, sedici anni, sarebbe stato più opportuno iniziare con qualche lettura meno impegnativa. Perciò raggiunta la maggiore età ho iniziato ad appassionarmi al genere che mi interessava e da lì poi si è aperto un mondo, ho scoperto che la lettura è una cosa meravigliosa, stupenda, mi ha permesso di capire tantissime cose, rispetto alla mia vita e a quello che io volevo essere: molto convinto e deciso nelle cose in cui credo. Dalla lettura poi ho veicolato la mia vena giornalistica in uno stile più narrativo e ho iniziato a scrivere per me stesso e poi a pubblicare su un blog di aspiranti scrittori che condividevano una sorta di “Massoneria”, una loggia segreta della scrittura, e lì sono stato notato da un’autrice che poi è diventata una mia coautrice. Lei è molto brava e ha tanta esperienza con diverse pubblicazioni alle spalle, un giorno mi disse: “Ho letto i tuoi lavori e secondo me hai delle qualità che non dovresti sprecare limitandoti a pubblicare solo per i parenti o gli amici, ma esporti anche in contesti che contano”. Ci vuole coraggio, può andare bene oppure no, però almeno si può riuscire a comprendere quali siano le proprie potenzialità per cui questa cosa mi ha spinto a partecipare al primo concorso letterario con un racconto e posso dire di aver ottimizzato il cento per cento del rischio, visto che ho vinto; pertanto in quel caso, non sembra, ma sono una persona estremamente insicura, mi sono reso conto che probabilmente impegnandomi un po’ di più potevo realizzare qualcosa di concreto e ho partecipato al secondo concorso, che è molto importante, perché è tenuto in memoria di Giorgio Scerbanenco, considerato il padre putativo del noir italiano, è colui che ha creato il genere in Italia e che lo ha reso nazional-popolare, sono stato premiato anche in quel contesto, dunque ho compreso che era la mia strada, così la scrittura è divenuta una professione. Ho pubblicato tre romanzi con Clown Bianco Edizioni e alcuni racconti e storie con diverse case editrici.
Che tipo di disabilità è la tua?
Io ho una patologia genetica che si chiama osteogenesi imperfetta ed è sostanzialmente una patologia legata allo scheletro, alla struttura ossea, in pratica rende le ossa molto fragili, infatti viene chiamata la patologia delle ossa di vetro, per il fatto che si va molto soggetti a fratture e questo crea diversi scompensi, poi dipende tutto molto dal grado e dalla severità della malattia, non è uguali per tutti, nel mio caso mi ha costretto sulla sedia a rotelle, ad avere dei traumi e problemi respiratori.
Quanto ancora c’è da fare per facilitare la vita alle persone con disabilità?
Questa è una domanda molto complicata, nel senso che per quanto si stia facendo è tutto molto sulla carta, non c’è nulla, veramente nulla, di concreto; io più che i sofismi amo fare esempi concreti: domenica prossima devo andare a cena fuori con mia moglie e la mia famiglia, per prenotare un ristorante accessibile siamo stati tre giorni al telefono, comunque persino quando si trova qualcosa di conforme ci si deve adattare, non è mai tutto perfettamente in regola. In questo caso, io ho prenotato ugualmente nonostante i servizi igienici non sono adeguati e domenica devo consumare nella speranza di non dover andare in bagno.
Certamente io a quarantaquattro anni non sono più disposto a scendere a compromessi del tipo: “Ti alziamo, ti prendiamo in braccio”. È un atteggiamento che crea degli alibi e questo è un errore che commettiamo noi persone con disabilità.
L’esercente pubblico e privato è tenuto a seguire le normative vigenti, a rispettare le regole. Questa è una battaglia che molte volte, noi abdichiamo, non vogliamo dare fastidio o creare imbarazzo, ma in questo modo non cambiamo mai nulla. E tengo a sottolineare che è una realtà molto italiana e cioè dei paesi al di sotto della barriera nordica, è triste doverlo dire, sono stato, tempo fa, a Berlino dove ero assolutamente autonomo, indipendente. A Berlino sarei potuto uscire di casa tranquillamente da solo, senza qualcuno che mi accompagnasse, strade, mezzi pubblici, attività culturali di ogni genere, tutto totalmente accessibile, non ho avuto nessun tipo di disagio, si torna in Italia e ci si scontra con delle problematiche da terzo mondo, ma peggio del terzo mondo. Sono cose che non possiamo combattere solo con le lamentele. Ho fatto un uso smodato di articoli e denunce pubbliche o sui social, naturalmente questo va fatto, la comunicazione è importante, però è essenziale uscire, vivere, che le persone con disabilità entrino in contatto con il tessuto sociale, che si facciano vedere, che palesino la loro esistenza, spezzando quelle catene che per oltre quarant’anni ci hanno legati in un assistenzialismo di carattere clericale, va detto, l’atteggiamento cattolico nei confronti delle persone con disabilità non ha agevolato la nostra emancipazione, direi che l’abbia ostacolata, ha creato una figura familista della persona con disabilità che potesse essere accudita solo da un contesto familiare oppure socio-assistenziale, caritatevole e senza nessuna relazione con l’esterno, ed ecco che noi paghiamo lo scotto di quarant’anni di questa mentalità chiusa, gretta, che non ci vedeva come una risorsa per il paese, ma come un problema a cui trovare una soluzione e che fosse la meno fastidiosa, sia per la famiglia che per la società, perciò è importante uscire, battersi nei luoghi che non sono accessibili per stabilire che noi ci siamo, che vogliamo entrare, partecipare e se voi vi adeguate alla nostra presenza possiamo essere una risorsa economica per i locali, i ristoranti, perché non sempre le persone con disabilità sono finanziariamente disagiate, abbiamo anche noi, talvolta, la forza economica per poter contribuire ai guadagni di un esercizio commerciale. E se vogliamo leggerla in un’ottica di interesse economico, praticamente, possiamo essere una fetta di mercato, mettiamola così.
Io devo ringraziare moltissimo Giovanni De Luca, poiché da quando l’ho conosciuto ho riscoperto l’ardore, la passione e l’impegno nei valori civili che ci legano ai diritti per le persone con disabilità. Giovanni ha ampliato ulteriormente la mia visuale, permettendomi di comprendere quanto fosse importante la responsabilità sociale e civile riguardo alla disabilità e per me è stato un Maestro in questo senso, ho visto come una luce nella mia vita. Gli debbo davvero tanto. Attraverso il suo essere e insieme all’associazione UILDM ho riscoperto la volontà di non abbassare la testa, che, forse, col tempo e con le delusioni andavo perdendo, mi stavo un po’ rassegnando, invece Giovanni mi ha punzecchiato e mi ha fatto capire che bisognava tornare a lottare a testa alta. Lo ringrazio con tutto il cuore.
Il tuo prossimo progetto?
Sono in uscita, il 2 di settembre, con il mio nuovo romanzo dal titolo “Malafemmena”. È un noir ambientato in terra napoletana che si muove fra Napoli e la provincia vesuviana. Ho l’onore di avere una prefazione di Massimo Carlotto, di conseguenza il mio prossimo impegno è quello di promuovere il mio ultimo romanzo, andare in giro tra presentazioni, piazze e ovunque qualcuno mi voglia, conoscere lettori e lettrici, presentare i miei personaggi e la mia scrittura, contestualmente sto già scrivendo il prossimo capitolo del romanzo che verrà dopo.
Sono sempre in agitazione creativa, non mi fermo mai, oltre all’impegno quotidiano per mia moglie e la nostra vita matrimoniale, è bene evidenziare che anche le persone con disabilità possono avere, anzi devono avere una sfera affettiva, sentimentale, coniugale e sessuale, perché spessissimo siamo visti come delle amebe, dei soggetti asessuati, inanimati e non è così, bisogna far passare il concetto che possiamo essere uguali, c’è bisogno solo di strumenti adeguati per chiunque. Non ci vorrebbe molto credimi, è tutto nella volontà di chi deve creare una società per tutti gli esseri umani, forse in Italia non siamo ancora pronti a questo, speriamo possa avvenire al più presto.
Noi persone con disabilità abbiamo il dovere di lavorare, di impegnarci, è importante non chiudersi nel proprio orticello, non pensare che siano affari di chi verrà dopo, no, dobbiamo essere noi a lavorare per le generazioni future, affinché le persone con disabilità dopo di noi trovino un cammino più agevole di quello che abbiamo trovato noi e loro stessi possano lavorare per le generazioni successive, costruendo di più; io che sono nato negli anni ottanta sono cresciuto nei primi decenni della mia vita in una società che era nettamente diversa da quella che è oggi, in oltre trent’anni di battaglie si è sicuramente concretizzato tanto, ma non in maniera adeguata a quello che è stato lo sviluppo europeo rispetto alla disabilità, indiscutibilmente chi come me si è impegnato in questi anni per migliorare la nostra condizione, qualcosa ha ottenuto e indubbiamente si continuerà a ottenere, non fermiamo quest’onda di mobilitazione, dobbiamo essere tutti consapevoli delle nostre capacità, delle nostre possibilità e metterle al servizio degli altri, perché se ognuno di noi pensa ai fatti propri faremo dieci passi indietro e resteremo sempre fermi con le “Quattro frecce”.
A cura di Maria Grazia Grilli