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Il rap arriva al cuore con Ivan Rovati De Vita

Ivan, meglio conosciuto come Dope one, vola alto con il rap.

Rappa da quando era ragazzino, folgorato dal mitico Krs One.

Napoli è la sua fonte di ispirazione costante.

Dope One o Ivan, se si preferisce, ha un’anima rock e non solo, sì, i generi sono molteplici, non si chiude in una scatola ben confezionata, no, ama esplorare e soprattutto non si lascia incantare da parole amare, ci sa fare nello scegliere di rappare ciò che fa pensare. Visto? Ivan è contagioso. Certamente amerei rappare, ma è più proficuo a Dope one lasciarlo fare, anche se per tre righi voglio continuare.

Ivan non si fa stregare, no, lui ci da dentro al desiderio di vedere, emergere, uno Stato efficiente per tutta la gente, una giustizia profonda che non affonda. Il suo sguardo mantiene su tutte le mafie, lo tiene, non molla la presa, la trattiene tesa. 

Del resto come dice in una sua canzone: “Il rap è una lanterna”.

Ivan ha una lunga esperienza, anni e anni di lavoro, di studio. Una formazione creativa e umana notevoli.

A Ivan Rovati De Vita, Dope one, non sono mancati gli eventi importanti e neppure i grandi incontri con: Assalti Frontali, Ciccio Merolla, Dj Green Lantern, Dj Vadim, Freestyle of Arsonists, Ghemon Scienz, John Robinson, Kaos, Murs, Pharoahe Monch, Sadat X, Termanology e molti altri.

Condivide con Clementino un’amicizia e una collaborazione artistica di lunga data.

Ivan, hai cominciato a dodici anni a rappare, puoi raccontare la tua prima volta?

Io a dodici anni è come se sentissi che il mondo realmente fosse mio.

A quell’età non si hanno preoccupazioni e la mia occupazione principale era vedere i miei amici fraterni della Crew, stare con loro e fare freestyle. Oggi c’è mia figlia Sofia, il lavoro, la famiglia.

Musicalmente sono cresciuto con Speaker Cenzou che assieme a Shaone sono le pietre miliari del rap napoletano. 

Napoli è un dono che sveglia, attiva i sensori, gli allarmi o come li vogliamo chiamare e io già da adolescente ero ben allenato, avevo la consapevolezza di capire parecchio.

Ricordo che riciclai una cassetta di Cenzou con il suo disco dal titolo “Il bambino cattivo”, non sapevo neanche che si chiamasse Cenzou, era una delle prime cose che mi arrivò tra le mani, poi negli anni siamo diventati come fratelli, abbiamo realizzato varie opere. 

Quando si ascoltano Cenzou e Shaone si capisce immediatamente che bisogna essere umili, coscienti di quello che si fa, poiché il rap è per tutti, ma è necessario esercitarsi e studiare, dato che niente arriva dal cielo, poi indubbiamente ci sono le persone che nascono con un talento maggiore rispetto ad altri. Io provengo dalla scuola dell’allenamento, dell’applicarsi ogni giorno ed è così che uno può dire di saper fare un po’ di freestyle, di essere in grado di scrivere qualcosa che nemmeno dopo ventisei anni di rap io mi sogno ancora di dichiarare. È un percorso continuo verso il miglioramento. Sì, è vero lo faccio da tantissimo tempo, però con la stessa mentalità di quando ho iniziato e probabilmente è per questo motivo che oggi posso permettermi di stare su un palco dove c’è tantissima gente e improvvisare, dimostrando alle persone che cos’è il rap, visto che chi ascolta la radio spesso ha una visione un po’ ristretta, mentre il freestyle porta dentro il pianeta rap e fa capire l’importanza delle rime.

Naturalmente è passato molto tempo dalla mia prima esperienza, tuttora viva nella mia memoria. Era un evento del rap femminile a Napoli, il Fly day, e partecipava pure la famosa La Pina che allora stava in un gruppo che si chiamava Otierre, ricordo che mi chiesero di fare un freestyle dedicato alle donne. Chi mi conosce sa, quanto io ami le donne e le rispetti; sono assolutamente contro l’immagine della donna che sta nei video rap, messa lì in un angolino, non so con quale funzione. È abbastanza reale nel rap, tangibile, questa cosa che sto dicendo e penso che sia maschilista, sessista. Io combatto costantemente questo comportamento. 

Sono nato e cresciuto tra la povertà, nel disagio, e non è che studiassi molto, in ogni caso già a quel tempo, grazie alla passione del rap, prendevo dieci nei temi di italiano; con questo voglio dire che mi sono sempre accorto che il rap non fosse semplice musica, ma c’era tutto un mondo che faceva crescere me e i miei amici. Esisteva un universo dove non c’era razzismo, omofobia, differenza tra razze o religioni.

Ci si incontrava nei Cipher, non sono altro che una decina di ragazzi che si riuniscono in cerchio e o fanno breakdance o rap, riuscendo a trasmettere quanto valgono e le loro capacità. In quell’ambito non c’è nessuna giuria, perciò è denominato il rap di strada, perché in quelle circostanze non ci sono persone che guardano come uno è vestito o parla e per questa ragione si dice che l’hip-hop è di chiunque, innanzitutto per il fatto che non ci sono disparità. 

La prima volta che ho ascoltato Krs One mi sono fatto molte domande e posto tanti dubbi. Lui portava avanti l’idea di Edutainment cioè educazione e intrattenimento. 

Era convinto che tramite il rap ci si potesse risvegliare e uscire dalla violenza, accorgersi che ci spariamo addosso l’uno con l’altro solo per fare il gioco di altri e in più vendiamo droga; in quel periodo c’era la piaga del crack, più che l’eroina, una droga inventata esclusivamente per ammazzare la popolazione nera piuttosto che quella bianca, dal momento che era più economica e dunque accessibile a chi viveva nei ghetti.

Krs One veniva da questo background e io a dodici anni già vedevo nel rap qualcosa che andava oltre la musica.

Il rap per me ha un’intelligenza superiore e c’è da fare una distinzione tra rap e hip-hop: il rap è la musica e l’hip-hop la cultura che racchiude l’MC (Master of Ceremonies) il cosiddetto rapper, il deejay, il breaker che rappresenta la breakdance e infine il writer con i graffiti.

Potremmo parlare per ore del rap e di tutto ciò che gli ruota attorno, come la scrittura di cui io sono un vero e proprio malato. È interessante la scomposizione delle parole e c’è una particolare tecnica che si chiama invert e funziona così: “Io sa  rò una ro  sa”. Ci sono tanti metodi, persino come far suonare le rime, io amo come riescono a farlo gli americani che in pratica fanno risaltare le vocali. È un viaggio lungo e ognuno sceglie lo stile che più gli risuona. Io ho uno stampo un po’ americano e tra tutte le varie lingue è quella con cui ho più affinità, considerando che il rap made in USA mi ha cresciuto, non che io abbia copiato, però comunque ascolto da vent’anni anni il rap di quei mostri sacri e ovviamente mi hanno dato un’infarinatura, sarei un bugiardo se dicessi che non è così.

Come va il mondo della musica in Italia? intendo la produzione. È faticosa? Tu come sei organizzato?

Penso che oramai avere un team sia essenziale.

Io ho iniziato in una dimensione dove l’unica cosa che importava era partecipare alle Jam (la Jam è una situazione dove si esprime l’hip-hop). Ci sono dei muri per i writers che possono fare i loro graffiti, c’è lo spazio linoleum, delle pavimentazioni per i breakers che fanno la breakdance e una occasione dove agiscono i deejay e gli mc’s. 

La mia gavetta è stata questa, essere presente dappertutto, lo ero talmente tanto che alcuni di loro, come si dice a Napoli: “me tenevene ‘nganna”, non ce la facevano più a vedermi e se non mi passavano il microfono, lo chiedevo, non me lo prendevo, non ho mai fatto queste azioni stupide e arroganti, ma d’altra parte sono sempre stato del parere che in un contesto libero ognuno avesse il diritto di esprimersi, chiaramente non calpestando chi c’è intorno, specialmente se si è nell’eccezionale connessione con l’hip-hop dove si proclama la condivisione, l’unione, una parola che oggi sembra essere solamente aria fritta, invece l’unione crea fratellanza, pace.

È fondamentale mantenere la rotta nonostante qualche volta possa essere impegnativo. Lo sappiamo che i soldi tengono il timone in particolari frangenti, se li hai puoi permetterti di cambiare il gioco, è noto che arrivati a un certo punto è come se fosse un gioco e si è obbligati a mantenerlo e per farlo ci vogliono moltissimi soldi. Quando ho iniziato io si metteva solo la bravura.

Attualmente il rap influenza il pop e cioè la musica più significativa per cui si spendevano milioni per i video, vale a dire che Madonna nel suo prossimo disco avrà dieci canzoni su tredici che hanno lo stampo hip-hop. Oggi giorno pure Laura Pausini se ne esce che fa un pezzo rap.

Io per dieci anni ho smesso di fare il cuoco e ho fatto soltanto musica. È stata dura. Nel frattempo ho avuto degli incontri discografici, ma, lo dico senza peli sulla lingua, la questione è che vogliono snaturare il suono per non dire poi la magica frase: “Sono troppe rime“. Quindi, per chiarezza, non è il problema di Dope one che non trova un’etichetta. 

Io so per filo e per segno che cosa dovrei fare per averla. Il punto è che il rap sono le rime che possono suonare anche senza una base musicale, questa è la mia scuola. Io metto al primo posto le rime, se qualcuno vuole metterle all’ultimo e inizia a dire: “Qua troppe rime, aumenta le pause, il ritornello deve essere la cosa più rilevante del pezzo. Tu hai fatto sedici battute? Fai un bridge che otto devono essere cantate“. Alla fine è un togli qua, togli là e del rap cosa rimane? Io non ci sto.

Sfido tutti a farci una chiacchierata e a dirmi qual è il rapper che è rimasto com’era all’inizio, quando faceva determinate cose. La realtà è che purtroppo passato in quell’etichetta magicamente non le fa più. Ne conosco tanti e superano le dita della mia mano, non voglio nominarne qualcuno, ma è solo per spiegare come mai io sono rimasto me stesso. Non è difficile trovarsi nel posto giusto, al momento giusto, uno sa come andare incontro alle cose, ma se si deve sottostare a certe visioni, no grazie.

Il merito di queste mie scelte credo che vada attribuito al fatto che ho ascoltato in continuazione i mostri sacri del rap americano e osservato le magie che accadono in America, come il tipo che è mainstream e fa il pezzo con l’artista che è underground; di base lì c’è tanta cultura, sì, a volte fanno qualche pezzo commerciale, però portano avanti il concetto dell’io sono un rapper, se ne parli qui si mettono vergogna di dire: “Io sono rapper”, preferiscono: “Io sono un artista”. 

Per non parlare di quando fanno il tormentone estivo, da notare che nessuno fa un pezzo che parli di guerra o di violenza. 

Allora io mi metto in live e dico: è vero non ho fatto i soldi, ma i veri mostri del rap, quelli che poi ascoltavo quando avevo dodici anni e con cui oggi faccio le cose, sono i miei primi fan, senza fare nomi, tutta la scena che per me conta e cioè coloro che hanno creato, in Italia, le fondamenta del termine hip-hop mi adorano.

Con chi vorresti lavorare e ancora non è capitato?

In questa fase della mia vita con i giamaicani, sì, amo il reggae, la musica dance hall. 

Devo dire la verità, di tutte le persone che ammiro dell’hip-hop italiano ho collaborato quasi con tutti e tanti altri legami stanno nascendo.

Puoi rappare un pezzo soltanto per gli streetnewsiani?  

Chi porto ben e nutizie, chest è robba real, o materiale cartaceo, chest è roba istantanea, song o rap mediterraneo, veng for, semp aret magg purtat consapevolezz, sotterrn sti cos sott e terr nost, ma nuje ascimm afor ancor chiù tuost, è dedicat a chi sta facenn chest intervist, fors pcchè primm nun ler maje vist a nu rapper comme me nun ce sta problem pcchè port l’essenzial nun port gourmet nun facc chiu l’aiuto cuoc, mo song quas nu chef nun o facc pe blef song nu guaglione ca te rice ca a death è vicin cioè a mort ossaje ca nun m’aspett a ciort campionamm pur è suon e pianofort, pur s so legat o rap grazie all’hip hop campionamm ogni gener, rock blues reggae e dub pozz sta rind o centr social oppur dint o club, è dedicat a chi nun port giudiz ma sulament è verità rind e nutiz, scusm e difficil a tnè o tiemp senz nu beat o tiemp c teng o teng rint a ment e quann facc o rap m sient cuntent p chest song a current ca m fa essr putent

Te lo dovrò mandare, perché a scriverlo chi è capace? (Risate)

E nun fa nient s nun simm capac l’artist commercial nun scriv rim c parlen e pace, fors pcchè nun ten rispett e chell c sta ngopp a sta terr, fors pcchè a cos c fa guaragnà e chiù è a guerr

Grazie Ivan.

Un desiderio che vorresti si realizzasse a breve?

Un desiderio forte è che io riesca a focalizzarmi di più sulla mia musica ed economicamente a fare il “carusiello” come si dice a Napoli, dal momento che le spese sono notevoli e tutto da solo è un po’ difficile. 

Poi avere più tempo da dedicare a me e al mio team che è straordinario, a partire da chi realizza i beats Mixtape, ai video, all’ufficio stampa.

Stai lavorando a progetti futuri?

Ho quattro dischi in uscita: tre album e un mixtape. 

A cura di Maria Grazia Grill

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