Piovve tutta la pioggia del cielo, di notte. Scrosciò costante, fitta, sopra il tetto in legno, lungo le foglie verdissime degli alberi tutto intorno alla nostra capanna. Scivolava attraverso le assi fino a toccare la terra già bagnata penetrando in essa, facendole l’amore, arrivando fin dentro le sue profondità, nutrendola così e, preparandola per il giorno che quasi arrivava con il suo sole perpendicolare e denso. Nella foresta, nella selva, la notte passava tra il vociare sporadico di qualche animale notturno ed il suono accogliente del battere dalla pioggia. risuonava la pace e la tranquillità e tutto conciliava un sonno profondo e piacevole. Smise di piovere, rimase solamente il petricore, quell’odore caratteristico che lascia l’acqua dopo un intenso acquazzone. Lentamente come un treno in partenza, il sole iniziò il suo ritorno espandendosi dentro la rugiada posatasi lungo le enormi foglie dei platani e gli alberi di papaya. I suoi raggi cominciarono a rischiarire le goccioline una ad una che, per la vergogna sfuggivano via verso la terra, lasciando così asciutti gli alberi. La selva iniziò a svegliarsi, i raggi più forti si inoltrarono dentro le sue viscere, alcuni gatti ancora insonnoliti si stiracchiano attraverso il viottolo di pietra che conduceva alla spiaggia. La sabbia era umida, ancora bagnata quando, il sole cominciò ad alzare la linea d’ombra verso i meandri della terra, illuminandola e facendo evaporare tutto il bagnato della notte. Quella linea d’ombra lambi anche noi, abbracciati sotto il baldacchino e la zanzariera. Ci destammo dopo una doccia veloce e fredda, circondati dal verde vivace della selva. Fuori era già caldo e tutto stava già prendendo vita. al piano inferiore ascoltammo il vociare delle pentole e padelle scricchiolare sopra i fornelli accesi dalle mani della signora Rosa che stava preparando le colazioni per gli ospiti delle sue capanne. Ci vestimmo comodi, un costume a pantaloncino ed una camicia morbida. Sul tavolino ci aspettava un succo di mango appena centrifugato, della papaya tagliata a fette grandi, un arepa bianca con sopra un pezzo di formaggio, un primosale ed ancora delle uova strapazzate e salsicce. Ringraziammo e, dopo aver preso lo zainetto con il poco necessario per la giornata, ci dirigemmo lungo il viottolo, verso il mare, quel giorno avremmo attraversato, tra le altre cose, la frontiera con Panamá, a piedi, calpestando la terra e raggiungendo il piccolissimo avamposto de La Miel.
Costeggiammo la caletta per poi inoltrarci nuovamente tra la selva dove, un cartello in legno dipinto a mano ci indicava il cammino per La Miel. Ai suoi margini v’erano arbusti di vario genere e casette meravigliose e curatissime con i loro giardini verdi, piante dai fiori colorati. Era tutto in salita, alcune scale, sempre in legno ci stavano traghettando verso la frontiera terrestre tra Colombia e Panamá. Ogni gradino ci fa riflettere quanto siamo privilegiati nella vita e tutto questo privilegio è stato puramente casuale, non è né frutto del talento, nemmeno dello sforzo o dello studio ma, semplicemente la fortuna di essere nati nel lato “corretto” del mondo, il lato che viene definito, a mio avviso erroneamente “civilizzato” lo stesso lato dove tutt’ora muoiono persone di fame e di sete, dove investono in armi e non in educazione o salute, il lato dove si sprecano tonnellate di cibo, dove uomini uccidono donne e dove donne uccidono uomini. Dove vengono bullizzati bambini e bambine per il loro orientamento sessuale o unicamente per il loro aspetto fisico. Lo stesso lato “corretto” dove quegli stessi bambini, con dieci o undici hanno decidono di suicidarsi o di sterminare la propria famiglia. Lo stesso lato dove viene dato uno smartphone in mano ad un bebè per farlo stare in silenzio. Siamo, però ugualmente privilegiati perché nessuno ci ha colonizzato e continua a farlo* (vedi paesi europei che stampano moneta per i loro territoti in africa o nei Caraibi). Siamo fortunati perché, in linea generale, se usciamo di casa possiamo stare tranquilli. Ad ogni gradino in legno che scricchiola sotto di me penso ai mille di piedi che, frettolosamente li hanno pestati, con, chissà, fra le braccia il loro lattante in fin di vita, o con il senso di colpa di aver abbandonato la loro mamma, lasciata morire dietro perché avrebbe messo a rischio il transito migratorio. In mezzo a tutta questa straordinaria bellezza i miei sentimenti si mescolano e sono anche arrabbiato con tutte quelle persone che, governanti, dittatori e re, fanno tanto del male per due spicci che, in ogni modo alla loro morte dovranno lasciare.
Le lacrime, alla vetta, si sono mischiate con il sudore e la fatica. Siamo in cima, giusto nel bel mezzo della frontiera e lo spettacolo è decisamente abbacinante. Tutto intorno è verde e mare, una vista a 360° su questo incredibile territorio. Alla destra Colombia con la sua Sapzurro e a sinistra Panamá con la sua La Miel. Da qui, inizia la discesa verso il paesino vissuto da circa quattrocento persone. La discesa è decisamente più lieve nonostante le sue infinite scale verso il basso. Le scendiamo con il sole alto sopra di noi ed osservando dall’alto le piccole casette lì sotto. Non ci sono controlli di passaporti qui su, né in basso. Girovaghiamo per le viuzze pulite di La Miel fino a raggiungere il mare dal colore intensamente turchese. L’acqua tiepida ci invita a rimanere a mollo per molto tempo, parlottando di tutto e di niente. Stesi sulla sabbia bianca del bagnasciuga sgranocchiamo un cocco appena aperto mentre il sole raggiunge il suo massimo punto di forza. Rimaniamo lì, a lasciar fluire il tempo, ingannandolo ancora una volta che non ci importa nulla di lui, arrestandolo fra le palme, piccole e grandi, che ci circondano, beffeggiandolo chiudendo gli occhi fingendo di dormire. Il percorso verso Sapzurro, il ritorno risulta essere sempre più veloce, probabilmente perché già ne abbiamo fatto esperienza eppure, ci sedemmo su un pezzo di legno adibito a piccola panchina sulla vetta. Ci vogliamo godere il panorama, questa impressionante opera d’arte.
Prendemmo un paio di birre nel bar del porticciolo. In spiaggia una famiglia con ben cinque pargoli ed uno in arrivo, diretti da due genitori giovanissimi, giocano tranquilli nella caletta. I loro volti sono rilassati, felici, sereni. Il papà gioca con i suoi figli, un altro costruisce castelli di sabbia e la mamma, incinta, è semidistesa sopra un asciugamano. Lui, praticamente ogni dieci minuti, si alza per darle un bacio appassionato e pieno d’amore. Sorridono. Giorni di felicità qui a Sapzurro.
a cura di Michele Terralavoro
https://www.instagram.com/micheleterralavoro/
https://linkbe.me/Michele.Terralavoro