Diario di avventure, finestre sulla Terra. Santa Rosa de Osos, il dolce camminare

Eravamo in alto, oltre le nuvole, sopra la città, fra l’aria fresca delle montagne che riflettono la luce del sole e baluginano nello spazio eterno tra me e l’orizzonte. Quella seconda mattina, nonostante avessimo fatto tardi la notte precedente, dovuto alla festa dei quindici anni di Isa la nipote di Sebas, ci svegliammo, senza sveglia, come ogni volta che viaggiamo, prestissimo. Alle sei e mezza già eravamo in piedi e, dopo esserci messi un paio di pantaloncini corti ed una maglietta uscimmo senza fare rumore, di casa. Iniziammo a camminare in direzione della finca di proprietà della mamma, una meravigliosa proprietà alle porte di Santa Rosa de Osos, ettari di pascolo ed una meravigliosa casa colorata incastonata fra le escrescenze. Dalla piazzetta principale, più o meno, ci si impiega una oretta a passo tranquillo per raggiungere la finca. Iniziammo a scendere lungo la statale, ai lati mucche e pascoli brucano tranquilli l’erba che cresce rigogliosa e verdissima e noi parlando dei ricordi. Attraverso le sue parole riflettono i ricordi indelebili di quegli anni che dai suoi occhi si proiettano ai miei, mostrandomi quelle memorie.

Tutto era verde, come adesso, la rugiada mattutina brinava il manto tutt’intorno alla finca. Sui fornelli saltellavano arepas, tante, moltissime, erano otto più alcuni lavoratori del campo ed una aiutante domestica. Il sole introverso saliva lentamente da dietro le montagne, sorvolando sopra le nuvole che nascondevano la città lì sotto. Il ritmo lento e costante del campo, la terra bagnata ed il suo odore unico e caratteristico, il profumo del caffè caldo e del cioccolato, del formaggio fresco e delle arepas bruciacchiandosi sui fornelli. Le uova strapazzate, del pane caldo ed il burro. L’acqua della doccia, il vapore del calore che usciva da sotto la porta del bagno. Alcuni fratelli tornando dalla mungitura prima di lavarsi ed andare a scuola o al lavoro. Lui sistemando i letti di tutti quanti, lustrandosi le scarpe, sistemando la divisa del collegio. Qualche trattore batteva la terra lì fuori. La colazione. Le raccomandazioni. La camminata fino al centro dove stavano per iniziare le lezioni. Il paese che si destava, alcuni bus, le macchine antiche dai colori verdi, marrone, o grigio scuro. Le campane della chiesa che svegliavano i più ritardatari. I saluti delle donne andando al mercato per vendere o per comprare, frutta, verdura, carne, uova, pane, farina, zucchero. Non c’era tutta questa plastica, non c’erano tutti questi pacchetti pieni di scritte, indicazioni, tutta questa inutile contaminazione dovuta alle eccessive misure. C’era fiducia e conoscenza. Le saracinesche che si alzano, i bar che si raccontano la notte ed il giorno precedente o quelli futuri. Alcuni anziani già giocando alle carte o al domino. Alcuni galli cantando a squarciagola. La vita sottile della semplicità.

Dai finestroni della scuola di suore, osservava il mondo lì fuori, piccolo, pieno di domande, e altrettante risposte che, col tempo si rettificheranno e prenderanno una forma più vicina a chi siamo veramente. La ricreazione fuori in cortile giocando con un pallone che rotola da un estremo all’altro, calciato da piedi pieni di speranze e desideri e tanta allegria e a volte confusione interiore allo stesso tempo. L’incontrollabile voglia di conoscere, di sapere, chi sono? Dove voglio andare? Cos’è l’amore? Cos’è l’amicizia? Cos’è il mondo? Alcune di queste domande con lo scorrere del tempo prenderanno una risposta, altre, invece resteranno mute, ed altre ancora impareremo che non sono realmente essenziali ma bensì, la cosa più importante è la vita stessa che non è una bozza ma direttamente la “bella”, la versione unica e finita. Il tessere dei ricordi, lì in giardino, quelle sensazioni “strane”, quelle emozioni contrastanti.

Il rientro a casa camminando a testa bassa sui libri di scuola, su quei compiti completati lungo il tragitto verso l’“hogar”, il focolare domestico dove, in tavola, ti aspettava un piatto caldo, una buonissima zuppa di carne, del riso con carne o una trota fritta, le verdure e differenti domande alle quali non si aveva quasi mai voglia di rispondere. E poi, di nascosto, sottrarre dal chiosco di vendita della mamma qualche dolcetto da mangiare camminando per i colli, lungo gli ettari della proprietà familiare. Sognando, giocando ad essere grande con qualche amichetto o con qualche fratello e d’estate poi, farsi il bagno nella vasca fuori in giardino tutti insieme in mutande sotto gli occhi attenti della mamma e della ragazza che la aiutava in casa con tutti quei bambini. La vita senza alcun opposto, senza alcuna controparte, la vita intensa, condivisa, vissuta. Quei ricordi d’infanzia che ci fanno emozionare, che ci stringono lo stomaco, chiudono la gola, trattengono le lacrime.

Quanti ricordi dentro ognuno di noi, se solo chiudessimo gli occhi, adesso, e pensassimo ai nostri otto anni, i nove, i sette, le emozioni della scoperta, le avventure con gli amichetti, chissà dove saranno adesso, chissà com’è la loro vita adesso, se è stata clemente o no, se la fortuna è stata dalla loro parte, se hanno trovato l’amore, se hanno provato l’odio o la rabbia. Se hanno scelto per loro stessi o per accomodare qualcun altro, uno dei più grandi errori. Se sono felici e tutto questo si riflette inconsapevolmente su di noi. sulle scelte che abbiamo preso, i no che abbiamo detto ed i sì, se ci sentiamo ancora in tempo o se il tempo pesa su di noi. Non ci sono bozze, non gli sono studi o ricerche, c’è solo la vita, sola, unica, per quanto ne sappiamo. E sì, siamo sempre in tempo per rischiare, per buttare all’aria castelli di carte creati con tanta inutile dedicazione, spesso. Preparare un solo bagaglio a mano, perché di solo quest’ultimo abbiamo bisogno, come ci insegna Gabriele Romagnoli nel suo omonimo libro, e partire o restare o volare via per poi tornare o non tornare più. La vita poi ci metterà sul cammino persone che ci faranno davvero bene, ed altre che probabilmente cin faranno davvero molto male ma, tutte quante, per quanto dolore ci potranno arrecare o quanto bene, ci insegneranno qualcosa di strepitoso ed abbacinante. Cosicché dobbiamo prendere tutto questo, imparare e poi bruciarlo affinché faccia parte del vento e, in noi, delle esperienze.

Passeggiando mangiamo i dolci frutti che incontriamo sulla via, more deliziose raccolte con le sue mani per me, per noi. Posso ancora vedere quel dolce e sensibile bambino che faceva i compiti tornando da scuola, salendo questo sentiero chissà, fermandosi a mangiare qualche mora prima del pranzo. Posso osservare quegli occhi dolci ed intravedere parte di quella vita trascorsa.

a cura di Michele Terralavoro

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