Mi ricorda Prepezzano, il paesino, frazione del comune di Giffoni Sei Casali, Salerno, dei miei nonni paterni. Mille e duecento anime circa, lo abitano. Li, ci si arriva passando prima per Salerno poi, addentrandosi sempre di più dentro la campagna Campana. Si raggiunge girando a sinistra, la curva è strettissima e un pochino in discesa. Da quel momento si serpeggia costeggiando enormi ed immense piantagioni di nocciolo, ricordo durante il raccolto, i teli verdi legati ai tronchi, ricevendo miriadi di nocciole dall’odore caratteristico ed unico che, si lasciano cadere su quei tessuti. Si va piano su quella strada, è piccola, a due corsie ma, le curve fanno stare attenti i conducenti. Si arriva davanti allo stadio del borgo, enormi riflettori puntano sul campo, parcheggiavamo sempre nello stesso posto, nella minuscola piazzetta della fontana, proprio sotto casa. Lì, dietro quella fontanella attaccata sulla parete, propriamente alle spalle, un lavatoio comunitario. L’acqua scende da un ruscello gelido e riempie la vasca dove, diverse volte ho incontrato alcune donne sfregare a mano le lenzuola bianchissime di qualche letto matrimoniale. Con un saluto cordiale o una spettinata di capelli con una delle mani umide mi salutavano amabilmente. Tutte, all’epoca non capivo il perché e nemmeno me lo domandavo, sapevano che ero il nipote di Michele Terralavoro e Rosa. Io attraversavo quegli sguardi materni e le chiacchere in dialetto per andare a prendere l’enorme cocomero che mio nonno, precedentemente aveva messo a mollo nella parte superiore, esattamente nella prima mini-vasca dove si raccoglieva l’acqua prima di scendere nella vasca principale. Era un’impresa importante per me, mi mandavano quasi sempre senza maglietta per non bagnarla ed io, salivo un paio di gradini, mi sporgevo in avanti e la aggrappavo con tutta la forza che potevo, non volevo mica far brutta figura davanti a tutte quelle signore che mi sbirciavano sotto il loro sorriso dolce. Lo stringevo fortissimo a me, al mio corpo e lo portavo fin sopra a casa, nella terrazza dove erano riuniti tutti i miei familiari. La casa di Prepezzano era ed è, per me, un castello inespugnabile, il mio regno sicuro, protetto, custode silente delle mie prime avventure ed i miei giochi, dei miei viaggi immaginari e della costruzione del mio essere.
Si entra a casa di zia Edda, direttamente dalla cucina, centro e fulcro delle case partenopee, ed italiane, attorno ad una tavola ricca di cibi caserecci si sono discusse, parlate, le questioni più importanti. Lì sempre padroneggiavano i fornelli accesi, un sugo, una pasta fatta in casa, la parmigiana, le mozzarelle, le teglie di lasagna, le seppie ripiene, insomma, tutto ciò che si possa desiderare ma, quando ero piccolo non mangiavo moltissimo così, correvo direttamente fuori in terrazza. Un patio terrazzato, un pavimento bianco di mattonelle grandi, un lavello dove lavare a mano i vestiti più ostinati ed un pergolato fatto di intrecci di uva bianca che penzolava qua e là, comprendo dando ombra al tavolo in ferro battuto bianco, rotondo, come le sedie a gioco. Da lì, alla sinistra in alto vedevo la montagna verde che si alzava fiera ed in basso, una scala portava ad un paio di alberi grandi di limoni che raccoglievamo per preparare il celebre limoncello di zia. Una porta sempre di metallo bronzato collegava il secondo patio interno, attraversato dallo stesso piccolo ruscello che poi fluiva verso la vasca del cocomero e del lavatoio, ed il garage. Mi piaceva mettere a mollo i piedi in quell’acqua gelida e vedere, ogni tanto qualche piccolo animaletto nuotare dentro quelle acque limpide e cristalline che provenivano direttamente dalla montagna. Ogni estate in quel patio ricordo nitidamente, che preparavamo le passate di pomodoro per tutti quanti.
Ricordo l’enorme pentolone, era più alto di me, in acciaio dove bolliva costante l’acqua scaldata da un grande fornello stile campeggio ma molto molto più grande. Lì dentro mettevano a bollire i pomodori rossi, il quale profumo per me è indelebile e vivido come il loro colore. Poi le mie zie, le sorelle di mio nonno, mia mamma ed un pochino anch’io che ero il più piccolo di tutti e l’unico nipote, toglievamo la buccia per poi mettere i pomodori a frullare grossolanamente dentro un frullatore. Rammendo le risa, le battute, il caffè, i dolcetti di zia come pausa fra un passaggio e l’altro, ricordo le bottiglie verdastre riempite di quella passata di pomodoro chiuse e messe a bollire anch’esse dentro l’enorme pentola. Ricordo la felicità non trattenuta, la spensieratezza effimera e leggere di quei momenti eternamente passeggeri. Del fluire del ruscello e del tempo che si convertiva in echi dentro di me, uniche melodie infinite, preziose come l’acqua ed il pane. Finivo sempre per addormentarmi sul divano e di risvegliarmi poi, la mattina seguente nel mio letto con, fra le unghie ancora dei resti di pomodoro.
Le giornate passavano spensierate, dopo una colazione a base di biscotti o del dolce preparato da nonna o da zia, ed un bicchiere di latte, mi incontravo con Carmine e Dora, i miei due amichetti, i vicini di casa. Passeggiavamo per il paesino dove tutti ci riconoscevano e salutavano. Andavamo nella piazzetta principale a giocare a carte seduti in terra o a pallone, facevamo merenda con un pezzo di pizza o un gelato e trascorrevamo le ore a parlare in riva al fiumiciattolo che passava a Prepezzano. Nel pomeriggio invece, dopo il pranzo ed il pisolino guardando la tv, qualche cartone animato sdraiati sul letto o facendo qualche compito per la scuola inventavamo magiche avventure in terrazza. Creavamo il nostro parco acquatico con l’aiuto di mia zia, giocavamo a qualche gioco da tavola, ci raccontavamo l’anno appena concluso e di come era andata la scuola. Sono memorie dense ed estremamente precise che hanno messo le fondamente di quello che sono oggi.
La sera poi, dopo aver cenato abbondantemente e dopo essermi fatto una bella doccia calda ritornavamo in piazzetta. Mio nonno mi dava alcune monete per comprarmi quello che volevo e soprattutto per mettere la canzone che volevo nel Jukebox che avevano recentemente messo nella piazza. La mia scelta ricadeva sempre su qualche canzone del Festivalbar, come “Vamos a Bailar” di Paola e Chiara, ad esempio. Prima di dormire mio nonno mi canticchiava la canzone di Domenico Modugno: “L’uomo in Frack” che narra la storia di un uomo che passeggia solitariamente per le vie di un paesino dormiente, nell’oscurità della notte che ristora e desta allo stesso tempo i miei pensieri, ieri come oggi, sulla vita e l’esistenza. Il cielo stellato danzava sopra Prepezzano mentre mi addormentavo docilmente ripercorrendo le gesta del giorno appena passato…
Ad ogni passo sento le radici forti dell’essere, le fondamenta che hanno forgiato il mio essere, la mia personalità. Certo, poi la vita ci fa prendere pieghe inaspettate, occulte, differenti. Il vento attorciglia i nostri rami che si orientano cercando il sole e sfuggendo alle raffiche che, a volte, soffiano fortissime ed altre volte mai. I fiori germogliano come idee, alcune tossiche e bisogna tagliare quel ramo maldestro che altrimenti potrebbe portare tutto alla deriva, altri fiori invece sono più splendenti che mai e baluginano durante il tempo eterni. Alcuni boccioli si aprono e si chiudono rapidamente, senza gloria ne pena, altri invece impiegano il giusto tempo ed alcuni, infine, non si apriranno mai ma, seguono lì, chissà in attesa di che cosa o di chi. Radici dell’essere, nel profondo di ognuno di noi, profonde, superficiali, fastidiose, abbacinanti.
a cura di Michele Terralavoro