La notte danzò tutte le ore. E si fece l’alba e successivamente il giorno mattutino. Già era l’ora di tornare a casa, a La Ceja, ma ancora avevamo tutta la mattina e parte del pomeriggio per goderci Jardin ed i suoi incantevoli luoghi. Andammo a fare colazione in una particolare azienda dove producevano “pannella” e “Blanqueado”. Si trovava posizionata ai piedi della valle di platani e caffè, aveva i tetti in legno rosso spioventi, amplia e vi passava in mezzo un ruscello abbastanza forte. Lo spazio era grande, entrammo nella loggia c’erano vari tavoli in legno, con delle cassapanche anch’esse in legno lavorato a mano. Ordinammo un “calentado” per entrambi. Il “Calentado” è un piatto dalle dimensioni considerevoli, tondo, che contiene, una zuppa secca di fagioli rossi, uova strapazzate, bacon arrostito, pane tostato, burro e la gusto marmellata, da bere o un caffè o una cioccolata in acqua o in latte. Che delizia! Era buonissimo, lo mangiammo con tranquillità, la temperatura era perfetta, ed intorno a noi, incominciarono ad arrivare i differenti lavoratori della impresa familiare. Si accesero le fornaci, e si azionò il mulino ad acqua. Piccoli gesti quotidiani, forse, piccole azioni meccaniche chiameremo, ma per me no, erano rituali di una bellezza abbacinante, di una verità ed una essenza struggente, commovente. Un’orchestra perfettamente sincronica di mani, passi, dita su pulsanti, l’acqua che inizia a far ruotare la ruota del mulino in legno, la legna che si stiracchia sulle fiamme, il grembiule, le canne da zucchero ed il macchinario per estrarre il succo. Mi avvicinai per vedere meglio il procedimento. Enormi vasche di acqua a differenti temperature, il succo della canna da zucchero che, passando per le differenti temperature prende forma, la forma di una pagnotta ma molto più appiccicosa e, se non mossa e toccata per bene, diventa irrimediabilmente dura da usare. Da lì, in piccoli pezzi viene lavorata, allungata, distesa, nuovamente allungata fino a farla diventare più bianca e pronta per essere mangiata appena si raffreddi un pochino di più.
Ci regalo il nostro prodotto e compriamo un paio di prodotti in più. Camminando raggiungiamo una terrazza panoramica su tutta Jardin. È immersa negli arbusti di caffè, una valle di puntini verdi e rossi ed un profumo immediato di colazione. Ci sediamo nella loro veranda per una pausa caffè. Da lontano si vede la chiesa di Jardin, lì eretta, fiera, oltre il tempo e le barbarie, le casette dai tetti colorati, piccole strade e caffè, immense piantagioni di caffè. Ne chiediamo un paio differenti per provarli. Sono deliziosi. Così, ricaricati ci dirigiamo verso l’altra punta di Jardin, per farle un ulteriore saluto. C’è un teleferico, dicono, arriviamo. Credo sia stata l’esperienza più al limite della morte che abbia mai vissuto e, scherzi a parte, molto divertente. La funicolare è letteralmente una gabbia un metro per un metro, con delle barre di ferro per sedersi, sospesa a metri e metri sopra una bellissima gola verde tra due pendici rocciose. Un meccanismo la traina fino all’altra parte, retta da una corda principale e due più piccole ai lati, e via. La gabbia si muove, e tu guardi in basso tutta la tua vita passare. Il tragitto, il percorso, sospesi dura poco più di cinque minuti ma, sono i cinque minuti più lunghi della mia vita! Una volta raggiunta l’altra parte, l’eden, si può ammirare Jardin da un’altra prospettiva ancora. È avvolta da una luce preziosa. Il sole non la colpisce per intero ma attraversa il caffè e le enormi foglie dei platani lungo il suo percorso. le delinea con una delicatezza materna e paterna, la riscalda e la culla nella sua valle che resiste al tempo.
Una finestra sul passato che è forte, e presente nel presente, agganciata al filo teso di questa funicolare. Le tradizioni, i sapori, le persone, le mani, i gesti quotidiani che si trasformano in qualcosa di Sacro e profano allo stesso tempo, perché veri e reali. Non c’è artificio, né tantomeno modernità circensi che deturperebbero l’essenza stessa di questo angolo di passato così vivo nel presente.
Si riscende verso Jardin, verso la sua parte centrale dove la gente è prese dalla sua vita. Entriamo in un forno, il pavimento è composto da alcune bellissime mattonelle giallognole ed arancioni che, viste dall’alto creano dei disegni. Bisogna sempre cambiare prospettiva, allontanarsi un poco per poter vedere la totalità della situazione, del sentimento, incluso di una idea, perché da vicino, troppo vicino le grandi cose risultano effimere e senza valore ma, passo dopo passo, indietro, magari da una posizione favorevole, si apprezza la maestosità. Salutiamo Jardin, la sua Cueva del Esplendor, le sue piantagioni di caffè, i suoi platani, i suoi frutti tropicali districati lungo le pendici delle montagne che la circondano. La chiesa eretta, la piazza dove di notte la festa si fa forte, vivace e sudata. Dove galoppano i cavalli, scalpitando sui sampietrini.
a cura di Michele Terralavoro