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Diario di avventure, finestre sulla Terra. Arrivando nell’incredibile Capurganà. Verso Sapzurro

Aspettammo il nostro turno pochi minuti, salimmo quasi subito. Il molo era decisamente semplice, delle tavole di legno, delle assi in metallo che affondavano nella sabbia sotto le acque cristalline del mare ed una scaletta dalla quale imbarcarsi sulla lancia che ci avrebbe traghettato verso Capurganà, piccolissimo avamposto di mille abitanti circa dall’altra parte della baia. Controllati i documenti ed i biglietti ci consegnarono i nostri giubbotti salvagenti aiutandoci a indossarli. Ci fecero sedere ordinati, le persone più anziane dietro, vicine ai motori e i più giovani verso la poppa, questo perché, in caso di mare agitato o delle onde i colpi si sarebbero sentiti meno dietro. Il capitano del porto ci disse che, all’incirca dopo trenta o quaranta minuti avremmo trovare un po’ di mare mosso ma che, eravamo in eccellenti mani, presentandoci il nostro comandante, pilota. Iniziammo a muoverci, effettivamente i primi trenta minuti furono tranquilli, senza grandi movimenti poi, le onde progressivamente e iniziarono ad alzarsi sempre più alte raggiungendo i quattro metri, o almeno questo credo, la lancia iniziò ad andare sempre più veloci e, in alcuni punti sembrava quasi di volare o planare sopra quelle onde energiche e forti e di ammarare su di esse. Il vento soffiava da destra, la gente parlava, alcuni gridavano ed altri ancora si facevano il segno della croce. Non avevo paura e, ad ogni colpo basso cercavo di risedermi bene. Questo tratto di mare agitato durò per più di quarantacinque minuti per poi arrivare, finalmente nel piccolissimo molo di Capurganà. Che spettacolo. Il matre sotto di noi dì noi si distese gradualmente trasformandosi in un manto meraviglioso e turchese. In lontananza affioravano le casette colorate, i piccoli hostals e i mini-alberghi. Il porticciolo pieno di barchette in legno con sopra alcuni abitanti del posto che, per alcuni pesos, portano i turisti nelle differenti calette ed insediamenti minuti di casette, luoghi paradisiaci adagiati sulla battigia del Mar dei Caraibi.

Scendemmo, consegnammo i giubbotti salvavita ed andammo a fare il check-in per il ritorno, che sarebbe stato dopo dieci giorni, per evitarci la fila del rientro. Capurganà ci accolse incredibile, bellissima. Le sue casette variopinte in legno e mattoni, le sue finestre verso il mare, da qui calmo e sereno, la sua vivacità incontenibile e la sua pacatezza felice. Passeggiammo per le sue viuzze, comprammo dell’acqua ed un paio di dolcetti tipici colombiani pronti per la passeggiata che ci avrebbe aspettato di un paio d’ore per raggiungere la nostra meta, dove avremmo alloggiato per i primi giorni, Sapzurro. Si doveva camminare nel mezzo della selva per circa due ore, pronti per avvistare scimmie, e chissà quali altri animali abitanti di quella zona. Ci perdemmo ancora un paio di strade per Capurganà fino a raggiungere l’inizio del percorso, il sentiero che ci avrebbe portato fino a Sapzurro, luogo che, almeno una volta nella vita dovreste cercare di vedere, raggiungere e godere. Pagammo una piccolissima tassa di mantenimento ed iniziammo a inoltrarci tra la selva colombiana. Il cammino era in terra battuta, battuta dai passi dei precedenti avventori: “Viandante, sono le tue impronte il cammino, e niente più, viandante, non c’è cammino, il cammino si fa andando”, riportando le celebri, e straordinarie frasi, del grande poeta e scrittore Antonio Machado.

Iniziammo a salire, tutto intorno una fitta vegetazione tropicale fatta di palme, piante arrampicanti ed arbusti vari, tra cui alberi di mango o avocado, ogni tanto uno scricchiolio ci sorprendeva immobili ad osservare e cercare di avvistare qualche animale, magari una scimmia saltando da quelle parti. L’umidità bagnava i nostri volti, gocciolava i nostri capelli ed il sudore scendeva lungo le nostre fronti e schiene e, dal mio petto destro, non so perché ma sudo quasi esclusivamente da quel lato del corpo. Grandi foglie verdi ricevevano da qualche parte goccioline di qualche muschio quando, improvvisamente qualcosa salto sopra, in alto, le nostre teste. Alzammo lo sguardo verso su, verso il cielo dal quale il sole cercava di filtrare potente, senza grande successo, fra il fitto della selva e le grandi foglie di platano. Alcune scimmiette Titi, saltavano agili fra i rami di un grandissimo albero di mango, saranno state all’incirca tre o forse quattro e facevamo molto rumore, emettendo come delle grida sottili ma potenti. Una di esse iniziò a lanciarci dei manghi e non quelli maturi ma quelli verdi e duri, stava difendendo il suo territorio che percepiva invaso da forme aliene, quali eravamo noi, dopo aver schivato i lanci e scattato un paio di foto mosse continuammo un po’ più rapidamente lungo il percorso fino ad arrivare su di una cima dalla quale era possibile visualizzare a 360° tutto il panorama intorno a noi. Era veramente stupefacente, il verde vivace contaminava la nostra vista senza via di fuga fino a scontrarsi con l’azzurro del mare dei Caraibi che giaceva, da qui su, queto e pacifico, come la vita ed alcune persone, il loro involucro perfetto e calmo in contrasto con il dentro, il mondo delle emozioni e dei desideri insediati in qualche angolo nascosto della mente, forse dell’anima o chissà celato dietro il cuore. Da lontano si poteva intravedere Sapzurro, con la sua decina di casette basse che ci avrebbe accolto per quei giorni in paradiso.

Proseguimmo il cammino, adesso tutto in discesa, dopo la lunga, e sudata salita, ci stavamo godendo finalmente la discesa verso quello spettacolo abbacinate. Ci inoltrammo nuovamente nella selva che dipingeva tutte le cose di verde, il cammino a tratti era ricoperto di grandi foglie secche e verdi. Guardando in basso per non scivolare scorgemmo un paio di piccolissime rane, dall’apparenza assolutamente inoffensive, immobili sopra di esse. Sebas mi disse di non toccarle e di prestare la massima attenzione perché, quelle piccolissime rane nere a chiazze verde fluorescente erano molto velenose e, il contatto con la loro pelle avrebbe provocato la morte in due o massimo tre ore di agonia. Noi, in tutto ciò, stavamo percorrendo il tragitto in pantaloncini corti. Vedemmo un ponticello in legno, corto, passare sopra un altrettanto piccolissimo ruscello, lo attraversammo e la terra incominciò a diventare sabbia, pian piano, transitò fino a convertirsi in una sabbia bianca e sottilissima. Della luce potente incominciò a inondare il cammino, l’umidità di trasformò in colore secco e piacevole ed un albero faceva da porta verso il paradiso. Non potei trattenere le lacrime di emozione e di gioia nel vedere impressionante bellezza. Incredibile, troppa, tanta l’emozione che invadeva il mio corpo. Tutt’ora il ricordo vivido e denso, bagna la tastiera del mio portatile con delle lacrime di allegria al rimembrar cotanto encanto!

a cura di Michele Terralavoro

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Redazione StreetNews.it
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