La musica di Verdi fa i conti con il maltempo nella città di Giulietta e dell’Arena.
Una notte non più di mezza estate, ma di fine estate. In scena lo scorso 5 settembre all’Arena di Verona l’ultima recita di “Aida”di Giuseppe Verdi, nell’allestimento a firma di Gianfranco De Bosio che riprende le scene del 1913, anno della prima edizione del festival areniano. Meravigliosa cornice di pubblico, non tanto di contro le condizioni climatiche. Ogni spettatore è provvisto di ombrello o giubbino, in vista di piogge e addirittura temporali nel corso della rappresentazione e, in effetti, dopo una prima interruzione di circa 25 minuti per leggere precipitazioni, in un secondo momento, ormai a mezzanotte inoltrata, la pioggia riprende a battere così fittamente da portare velocemente all’annullamento della serata, troncando la grand opéra in pieno quarto atto.
Grande qualità nel cast e una continua gioia da vedere.
Si potrebbe parlare di “Aida bagnata, Aida fortunata”. Del resto il cast è pregevole, a partire dal ruolo eponimo, interpretato dal soprano Maria José Siri, elegante, ben rodata nei ruoli verdiani. La vocalità forse non è tipicamente areniana ma colpisce in accenti, impostazione e pathos. La sua chiave interpretativa presenta al pubblico un’Aida perennemente in contatto col suo Io, attraverso un canto intimistico e che fa percepire tutto il conflitto interiore del personaggio. Nei panni di Radamès un tenore che vanta un repertorio di certo più ampio, Gregory Kunde, artista belcantista di riferimento per i nostri tempi. L’americano nel corso della carriera ha varcato diversi stili e periodi musicali, partendo da Rossini e Mozart, per scoprire i ruoli più pesanti di Bellini e Donizetti, giungendo ai titoli imprescindibili del melodramma. La sua “Celeste Aida” è un saggio di dizione, intonazione e cura nei passaggi, al punto da far passare in secondo piano l’evidente “stanchezza” di una voce che ha già dato molto all’opera e che in alcuni punti è costretta a forzare più del dovuto. Il ruolo di Amneris richiede tecnica e peso ed Ekaterina Semenchuk ne è senza dubbio un’interprete di rilievo internazionale. Lei è la figlia del Faraone costretta a scontrarsi con l’”abborrita rivale” a causa dell’amore per Radamès: dal suo canto traspare fierezza, sfrontatezza, con un decisivo cedimento nel finale (“Già i sacerdoti adunansi”), quando volge l’animo agli sbagli e alle ingiustizie causate. Il mezzosoprano non riesce a terminare la scena del giudizio, causa pioggia.
A completare il cast il possente Amonasro di Youngjun Park, il vibrante Ramfis di Alexander Vinogradov, impegnato a stretto giro anche nel Basilio del “Barbiere” del Festival, il basso Giorgi Manoshvili nei panni del Faraone. Riccardo Rados è il Messaggero e Francesca Maionchi la Sacerdotessa.
La Marcia Trionfale è il momento clou per eccellenza in Arena di Verona. Due schiere di trombe egiziane, gruppi del magistrale coro diretto da Roberto Gabbiani, un corpo di Ballo con Ètoiles e addirittura tre cavalli in una scena rigorosamente dal sapore antico. Due obelischi a delimitare il palcoscenico, soldati con fiaccole infiammate alla sommità dei gradoni dell’Arena a far da sfondo, colonne e architravi, palme e sfingi per degli scorci indimenticabili. Ultimo ma non ultimo, il Maestro Daniel Oren, giunto ai suoi 40 anni di presenza al festival veronese, all’attivo quest’anno anche per “Carmen”. Il suo modo di dirigere si è fatto conoscere negli anni e ha guidato molte bacchette esordienti. Quando sente che l’Orchestra manca di intensità avvicina la mano sinistra all’orecchio a far intendere “non vi sento!” e, alla fine di arie o duetti particolarmente lunghe e impervie, prima di ogni spettatore, si concede ad applaudire e urlare “bravi!” agli artisti. Un direttore di riferimento dei nostri giorni.
A cura di Giuseppe Scafuro – immagini riservate.